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GME 2015: intervento di Angiola Rocino

GME 2015: intervento di Angiola Rocino

Il trattamento dell’emofilia e lo sport: un’alleanza da sempre riconosciuta ma ancora difficile da attuare. L’intervento della dottoressa Angiola Rocino, Responsabile Centro Emofilia Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli,  in occasione della XI Giornata Mondiale dell’Emofilia.

L’intervento di  Angiola Rocino, Responsabile Centro Emofilia Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli

La gestione e il trattamento dell’emofilia sono profondamente cambiati negli ultimi decenni, modificando radicalmente la storia naturale della malattia. Negli anni 70′ ed 80′ del secolo scorso la scarsa disponibilità di concentrati di fattore VIII (FVIII) e fattore IX (FIX) necessari per correggere il difetto coagulativo, rispettivamente, negli emofilici A e B era causa di un decorso progressivamente invalidante della malattia e la vita dei pazienti, specie se affetti dalla forma più grave di emofilia, era costellata di episodi emorragici soprattutto intra-articolari (emartri) e muscolari (ematomi). Ogni minimo trauma poteva essere causa di emorragia da cui i pazienti cercavano di difendersi assumendo stili di vita sedentari.
Tale atteggiamento e lo stesso succedersi degli episodi emorragici erano, inoltre, spesso causa di astensione da ogni forma di attività fisica e sportiva, oltre che di assenteismo scolare giungendo, in alcuni casi, ad impedire il raggiungimento di un livello d’istruzione paragonabile a quello dei coetanei e condizionando la possibilità di svolgere, nella vita adulta, un ruolo attivo e produttivo nella società e nel mondo del lavoro.
Inoltre, anche quando la maggiore disponibilità di concentrati per la terapia sostitutiva ha reso possibile l’attuazione della terapia “a domanda”, cioè in occasione degli episodi emorragici acuti, malgrado ciò rendesse possibile un loro più puntuale e tempestivo trattamento, la frequenza degli emartri era, comunque, causa del progressivo instaurarsi di un quadro di artropatia cronica incontrovertibile cui si associano deformità scheletriche, atrofia muscolare, dolore cronico, impossibilità o gravi difficoltà a svolgere le normali attività della vita quotidiana (camminare, salire le scale, vestirsi, utilizzare mezzi pubblici di trasporto), tanto che spesso era necessario un continuo aiuto e supporto da parte della famiglia e di operatori sanitari.

Oggi, l’utilizzo sempre più generalizzato della terapia sostitutiva di profilassi, volta a prevenire la comparsa di episodi emorragici e la conseguente artropatia cronica consente, invece, ai bambini, ai giovani ed anche ad adulti, che già manifestano segni di compromissione della normale abilità fisica, di condurre una vita pressoché normale. Certo, la vita quotidiana dei pazienti emofilici è tutt’ora scandita dalla necessità di effettuare infusioni di FVIII o FIX due/tre volte la settimana, ma l’attuazione della profilassi ne ha enormemente migliorato la qualità della vita in tutti i suoi aspetti e in ogni epoca della vita.

La moderna gestione dell’emofilia non può, tuttavia, basarsi esclusivamente sulla terapia sostitutiva di profilassi. I pazienti ed i medici che se ne occupano non sono, non possono e non devono, infatti, ritenersi ancora completamente soddisfatti degli enormi progressi compiuti se al benessere fisico non si associa un completo benessere psichico e sociale.

E, a tal riguardo, non può non essere considerata l’importanza che l’OMS attribuisce allo “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non solo l’assenza di malattia ed infermità” quale presupposto indispensabile per definire lo stato di “salute” dell’individuo. Ne deriva che una regolare attività fisica, intesa anche come pratica sportiva esplicata a tutti i livelli, da quello ludico-amatoriale al non agonistico fino all’agonismo vero e proprio è da considerarsi indispensabile ai fini del mantenimento e/o del raggiungimento di un pieno e consapevole stato di salute, se ciò è parte delle aspettative di benessere psichico e sociale del paziente.

Inoltre, è da considerare come l’attività fisica e lo sport influiscano positivamente sullo stato di salute di qualsiasi individuo migliorando la funzionalità cardiaca, contribuendo a prevenire le patologie cardiovascolari e metaboliche e, per ciò che attiene specificamente alla funzionalità muscolo-scheletrica, nell’emofilico, in particolare, tali attività contribuiscono a migliorare la forza muscolare, la flessibilità, l’equilibrio e la coordinazione motoria, elementi tutti di non trascurabile importanza al fine di prevenire la comparsa di episodi emorragici acuti. Non a caso, infatti, le linee guida della World Federation of Haemophilia (WFH), recentemente riformulate, e diverse linee guida nazionali ed internazionali, nonché raccomandazioni formulate da gruppi di esperti indicano nella fisioterapia riabilitativa, nell’esercizio fisico regolare e continuo e nello sport pratiche terapeutiche complementari alla terapia sostitutiva. Ciò nonostante, non è infrequente che tali raccomandazioni non trovino attuazione nella comune pratica gestionale dei pazienti emofilici o che lo siano solo in parte. Né è infrequente che la pratica sportiva non venga sufficientemente incoraggiata e, a volte, negata da medici non esperti nel trattamento dell’emofilia, come retaggio di un vetusto atteggiamento nei confronti di tale malattia e di una non completa conoscenza delle potenzialità derivanti dalla moderna terapia sostitutiva e dalla profilassi, in particolare.

D’altro canto, è anche da rilevare l’esiguo numero di studi clinici ben disegnati e ben realizzati che dimostrino i benefici a medio e lungo termine di una regolare attività fisica nella progressione dell’artropatia emofilica e nel contribuire a prevenirla. Esigue risultano, pertanto, le evidenze deducibili dalla letteratura scientifica che possano essere d’ausilio al medico nell’orientare ogni singolo paziente emofilico verso la scelta del tipo di sport da praticare, in maniera da trarne i massimi benefici a fronte di minimi rischi derivanti da possibili traumi.

L’atteggiamento più comunemente adottato dal clinico esperto in emofilia è, perciò, quello di raccomandare la pratica di sport percepiti come meno pericolosi in termini di rischio traumatico. La scelta spesso ricade, quindi, sugli sport che non comportano un elevato rischio di collisione sulla base della classificazione formulata dall’American Pediatric Society, adottata anche dalla WFH. Tale atteggiamento non appare, tuttavia, completamente condivisibile soprattutto se esso è l’unico ad orientare la scelta verso l’una o l’altra tipologia di sport. La collisione tra giocatori di uno sport di squadra non rappresenta, infatti, l’unica condizione determinante un rischio emorragico nel paziente emofilico. Al contrario, differenti condizioni fisiche di differenti pazienti possono diversamente influire sul rischio emorragico associato alla pratica di differenti tipi di sport.

Per tale motivo, ciò che a parere di sempre più numerosi esperti nel campo della terapia dell’emofilia, appare essere l’atteggiamento più idoneo nella scelta dello sport da consigliare a ogni singolo emofilico è quello che prevede un’attenta valutazione delle caratteristiche meccaniche dello sport che egli desidera praticare, dei rischi connessi, dei benefici biologici che da esso possono derivare, nonché delle sue condizioni ortopediche e dell’equilibrio muscolo-scheletrico che gli è proprio e di quanto esso sia, eventualmente, migliorabile grazie anche alla pratica sportiva.

Da tale attenta valutazione, condotta nell’ambito del team di specialisti che comprenda l’ematologo, il fisiatra, il fisioterapista, l’ortopedico che hanno in cura il paziente e, idealmente, lo specialista in medicina dello sport può, successivamente, scaturire una scelta più ragionata del tipo di sport da suggerire al paziente. A tal fine non è, inoltre, da sottovalutare l’importanza di non penalizzare i desideri, le aspettative e le aspirazioni del paziente con l’obiettivo di migliorare e non sacrificare il suo livello di auto-stima e i bisogni d’integrazione sociale, nonostante i limiti impostigli dalla malattia (come, ad esempio, la necessità di praticare l’infusione di FVIII o FIX prima di praticare sport) e con le stesse opportunità e potenzialità riservate ad un qualsiasi coetaneo non affetto da emofilia. Infine, vale la pena di sottolineare come ogni scelta inerente la salute ed il benessere psico-fisico debba, sempre, essere condivisa con il paziente, reso edotto di tutti i potenziali rischi e benefici derivanti dalla pratica di questo o quello sport. Ciò contribuisce a migliorare il rapporto tra medico e paziente, favorendone l’aderenza alle prescrizioni terapeutiche e gestionali della propria malattia.

Allo stesso tempo, da quanto espresso circa le scarse informazioni derivanti dagli studi scientifici sinora condotti emerge chiaramente l’opportunità di analizzare in maggiore dettaglio tutti i possibili aspetti dei rapporti rischio/beneficio intercorrenti tra pratica sportiva, manifestazioni cliniche e gestione terapeutica dell’emofilia. Un ulteriore auspicio, al momento formulabile, è quello inerente la definizione di un protocollo d’intesa circa la gestione dell’emofilico che pratichi sport o che intenda dedicarsi ad un’attività sportiva, condiviso dai diversi specialisti coinvolti e gli stessi pazienti. Tale auspicio trova particolare fondamento nella opportunità di evitare che siano adottati differenti criteri di gestione in ambiti locali o regionali diversi, creando disparità di trattamento tra i pazienti e un approccio non uniforme alle diverse possibili problematiche. Al contrario, un tale obiettivo è oggi facilmente perseguibile vista la sinergia e la stretta collaborazione con cui operano, in Italia, l’associazione dei medici specialisti in emofilia, A.I.C.E. (Associazione Italiana Centri Emofilia), la FedEmo, l’organizzazione delle associazioni dei pazienti, le singole associazioni regionali ed i singoli Centri Emofilia.

 

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