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Fragili, ma forti – Uno sguardo al passato – Report del primo appuntamento

Fragili, ma forti – Uno sguardo al passato – Report del primo appuntamento

17 settembre 2022, Primo incontro

FRAGILI, MA FORTI
Uno sguardo al passato

11 maggio 2013, è stato il primo incontro di Finestra Rosa, una data lontana nel tempo, ma segna l’inizio di un’apertura, di un’attenzione al mondo femminile dell’emofilia. Renata e Ivana hanno impostato un percorso virtuoso e fecondo rivolto a tutte le donne coinvolte nella patologia. È stata realmente una finestra che ha permesso di ampliare i panorami e le differenti implicazione del femminile in rapporto all’emofilia.

Oggi siamo di nuovo insieme per riflettere sui temi della fragilità e della forza.
Quando ci troviamo davanti a una patologia cronica come l’emofilia è del tutto normale avere dei momenti di timore, preoccupazione e apprensione ma, questi sentimenti umani costituiscono quello che Eugenio Borgna chiama “la forza della fragilità”.
Possiamo affermare che la fragilità è un valore umano; le nostre fragilità sono tracce sincere che di volta in volta ci aiutano ad affrontare le difficoltà, nel rispondere alle esigenze degli altri con partecipazione. Quello che il luogo comune considera un difetto è invece un’attitudine che ci permette di stabilire un rapporto di empatia con chi ci è vicino.
Fragile è l’essere umano per eccellenza, perché considera gli altri al suo pari, e ha bisogno di relazioni di scambi e confronti, perché la dove la forza impone, respinge e reprime, la fragilità accoglie, incoraggia e comprende. La fragilità non conduce al male, ma semmai alla saggezza.
La fragilità nelle immagini dei media, che incidono potentemente nell’immaginario psichico, viene associata alla debolezza vengono totalmente eliminati gli aspetti preziosi, i valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza, di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere, dell’umano che ci circonda.
La fragilità è la percezione del proprio limite, della propria condizione umana. La fragilità come origine della voglia di legame, di comprensione, di solidarietà e di amore. Ecco la forza della fragilità che tuttavia non può ingenuamente eludere la paura, il dolore, la preoccupazione il disorientamento.

Nella vita di tutti ci sono momenti difficili, che ci travolgono con irruenza tanto da togliere il respiro; la malattia acuta e quella cronica come l’emofilia non sono solo fatti biologici, mettono in crisi molti aspetti della nostra vita, i valori, gli affetti, le relazioni, i pensieri, scardinano i significati consueti e costringono a ristrutturare il nostro mondo cognitivo ed emotivo.
La malattia sonda dove risiede il coraggio e lo mette alla prova strenuamente, trascina il corpo e la mente in un percorso impegnativo che cambia le prospettive verso orizzonti possibili per le azioni e i pensieri. Accettare il cambiamento è un processo che va continuamente riconfermato, è un cammino una scoperta che si rinnova ogni giorno.

Con questo progetto “Fragili, ma forti” vogliamo offrire uno spazio di ascolto a tutte le donne che desiderano condividere le loro esperienze per dare significato ai vissuti personali rinnovare le risorse per comprendere, integrare, le esperienze verso il futuro.
La narrazione è un metodo per comprendersi definire o ridefinire la propria identità; quello che si crea con la narrazione è concretamente relazionale, comunicativo, apre alla reciprocità, allo scambio tra il narrante e l’ascoltatore e quest’ultimo ha l’opportunità di entrare in una risonanza partecipativa.
La narrazione non può prescindere dall’essere ascoltati, quando questo avviene senza giudizi, manipolazioni, ma con empatia rispetto e partecipazione situazioni confuse che sembravano irrimediabili appaiono sotto una nuova luce che permette di individuare aggiustamenti o soluzioni.

Una esperienza dal lontano Zimbabwe. Dixon Chibanda è il direttore del Programma per la salute mentale in Africa. È uno dei 12 psichiatri che operano in un Paese con più di 16 milioni di abitanti. Non sa come raggiungere tutte quelle persone in un territorio povero, vasto e difficile, senza poter contare sull’aiuto economico del Governo. Ha un’intuizione: chiedere aiuto alle nonne delle varie comunità, perché gli anziani sono tenuti in altissima considerazione nelle culture africane. Dal 2006, lui e il suo team formano più di 400 anziane disposte a raggiungere 70 comunità sparse per il Paese.
Le prime “Panchine dell’amicizia”. Con i pochi ospedali affollati, il dottor Chibanda e le sue nonne decidono che un sedile di legno all’ombra di un albero possa fare al caso loro. Inizialmente lo psichiatra, abituato a ragionare in termini strettamente scientifici e più “occidentali”, chiama il luogo “Panchine della salute mentale”; le sue anziane collaboratrici lo convincono a scegliere un nome più adeguato. “Panchine dell’amicizia”.
Tutte le volontarie sono anziane molto stimate nelle loro comunità. Possiedono capacità di ascolto, empatia e riflessione. Il loro lavoro è basato sulla terapia colloquiale, volta principalmente all’ascolto.
Parlare col cuore
Sono loro ad aver convinto l’equipe medica a mettere da parte terminologie cliniche come “depressione”; ritengono che bisogna comunicare e parlare la lingua dei pazienti. Così, in aggiunta ad un addestramento formale, ottengono di poter “tradurre” in lingua Shona (l’antico idioma locale) concetti come “aprire la mente” o “sollevare l’animo”.

“Nonna Chinhoyi”, come la chiamano qui, ha 72 anni. Non ricorda più il numero esatto di persone che si sono rivolte a lei nei 10 anni del suo volontariato. Ogni giorno incontra un’umanità dolente. Malati di Hiv, coppie infelici, persone sole con gravi problemi, giovani donne non sposate. Ma con tutti inizia a parlare così: «Qual è il tuo problema? Raccontami tutto e lascia che ti aiuti con le mie parole». E dopo aver ascoltato le loro storie, guida i pazienti affinché siano loro stessi a trovare una soluzione.

Anche noi nei nostri incontri usiamo parole e vorremmo che fossero vive, preziose e leggere come piume per donare carezze e permetterci di respirare profondamente nella fiducia.

Una breve sintesi delle nostre parole:
“Il confronto, la condivisione mi hanno aiutato a guardarmi dentro, ad andare oltre l’emofilia a diventare consapevole dei miei limiti, ma anche delle mie risorse; è stata la chiave di svolta per affrontare la crescita dei miei figli”.
“Coinvolgere e responsabilizzare mio marito nella cura dei figli mi ha permesso di alleggerire il carico di obblighi, da questo primo passo ho ricominciato a respirare e a riprendere degli spazi personali”.
“Fin da piccola, mio padre era emofilico, ho vissuto la malattia negli ospedali, nell’associazione ho sperimentato il senso di appartenenza e la sensazione di non essere soli. Credo che dovremmo avere più fiducia nei pazienti emofilici, dare presenza e cure ma, anche calmarci e rilassarci”.
“Questi incontri generano appartenenza come apertura alla vita, il contatto con gli altri genera la vita”.
“La parola chiave per me è accettazione, finché non si accoglie la patologia ma, la si vuole nascondere, eliminare, si vive in un continuo voler occultare questo genera isolamento e fa cresce la sofferenza”.
“L’accettazione non è facile, a volte crea sentimenti negativi che, si autoalimentano in un circuito di sofferenza dal quale è difficile uscire”.
“Accettazione e appartenenza rappresentano tappe, per me lavori in corso. L’Associazione è stata fondamentale oltre c’è tanta solitudine”.
“Credere e continuare a seminare anche in solitudine significa aprire alla generatività”.
“La comunità crea legami profondi, amicizie affetti che durano per sempre”.
“Finestra Rosa mi ha aperto un mondo soprattutto nella relazione con mio figlio. Quello che sto vivendo personalmente, mi fa condividere con altre donne che chiamo: “Compagne di sfiga”. E’ inutile piangersi a dosso; voglio dare valore al momento, vivere nel qui e ora”.
“La condivisione è portare alla luce, esprimersi, rivelarsi, è un momento fondamentale per l’accettazione; il cambiamento invece è una continua evoluzione”.
“Sostenere, aiutare altre mamme che affrontano l’emofilia e sono disorientate e piene di timori, mi aiuta ad avere più spazio a prendermi il tempo a rendere mio figlio più autonomo. Quando è tornato dall’esperienza di Dynamo Camp felice di aver imparato a infondersi da solo sono stata orgogliosa”.
“Non mi sono mai sentita fragile per la mia condizione, e per le difficoltà che ho avuto con mia figlia, credo nell’appartenenza fatta d’impegno, di attività; ho bisogno di obiettivi credibili e raggiungibili”.
“Il mio obiettivo principale è aiutare mio figlio ad accettare l’emofilia”.
“Accettazione e comprensione sono viaggi di vita; la condivisione è possibile solo se sono davvero ascoltata e compresa, non è sempre così”.
“Sono stata tanto preoccupata per gli altri, quando ho chiesto qualcosa che non mi era dovuto, adesso mi sono assolta; mi rimane l’amarezza e chiedo scusa per non essere riuscita ad offrire quell’aiuto che ipotizzavo di poter dare”.

Anch’io chiedo scusa se non ho riportato correttamente i vostri pensieri, se qualcuno non si è sentito rappresentato correttamente; quello che ho scritto viene dai pochi appunti e dai ricordi del nostro incontro.
Dalle ultime parole che ognuna di voi ha espresso ho costruito questa breve frase che spero ci rappresenti.
L’amore per se stesse, la fiducia, e il valore per la nostra forza, il nostro coraggio, la nostra passione, crescono grazie al confronto, alla condivisione, all’empatia al rispetto, nascono dalla tenerezza e dal cuore della nostra umanità
Ci rivediamo sabato 8 ottobre dalle ore 16.00 alle 18.00

GRAZIE,

Gianna Bellandi